Politica
Radio Carcere: informazione su giustizia penale e detenzione
Cie/Radicali: Torino è la prima grande città italiana a chiedere la chiusura dei Cie, senza se e senza ma. Anche in questo caso il radicale ha fatto la differenza
Giulio Manfredi, Membro della Direzione di Radicali Italiani, e Igor Boni, Presidente Associazione radicale Adelaide Aglietta:
Ieri sera, con il voto compatto di PD e SEL (sindaco Fassino compreso), il Consiglio Comunale di Torino ha votato un ordine del giorno che richiede al governo centrale non solo la chiusura del CIE di Torino ma di tutti i CIE italiani. Torino è la prima grande città italiana a esprimersi con questa radicalità.
E ancora un volta la differenza l'ha fatta la presenza in Consiglio di un radicale, Silvio Viale (indipendente nel gruppo PD), che ha tenuto duro sul suo emendamento che chiedeva di sostituire, nel testo originario dell'odg, la parole “superamento” (espressione ipocrita e ambigua) dei CIE con la parola “chiusura”; e alla fine ha avuto partita vinta.
Ricordiamo che i CIE furono introdotti in Italia, con altro nome, dal primo governo Prodi, grazie alla legge “Turco-Napolitano” (legge n. 40/1998); tale legge su poi peggiorata dai governi Berlusconi grazie all'opera della Lega, da Bossi a Maroni.
Anche in questo campo, Torino puo' fare da apripista all'approvazione di ordini del giorno analoghi nelle altre città che ospitano CIE ma, soprattutto, il voto di ieri sera può stimolare il nuovo governo in via di formazione a concepire politiche dell'immigrazione che non si basino più su di un istituto di contenzione che ha assommato la negazione dei più elementari diritti umani allo sperpero vergognoso di denaro pubblico.
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Sochi/Radicali: Fermo Pussy riot come nella migliore tradizione fascista e comunista. Ecco vero volto di Putin
Silvio Viale, Consigliere comunale a Torino e presidente Comitato nazionale Radicali Italiani, e Giulio Manfredi, Membro di Direzione di Radicali Italiani:
Basta poco. E’ bastato che due donne russe inermi, Nadia Tolokonnikova e Maria Alekhina, con la sola colpa far parte della band musicale “Pussy Riot”, osassero passeggiare per le strade di Sochi, a 30 chilometri dai Giochi Olimpici, per far scattare il loro “fermo preventivo”, come nella migliore tradizione fascista e comunista, quando si mettevano cautelativamente in gattabuia oppositori e sovversivi prima della visita del gerarca di turno. E non importa se sono state già rilasciate; l’importante è il messaggio trasmesso a loro e a tutti i russi: “possiamo colpirvi quando vogliamo”.
Per qualche giorno zar Putin è riuscito a mascherare la natura autoritaria del suo regime dietro i suoi sorrisi, gli abbracci alle atlete GLBT, le foto di Luxuria con le famigliole russe. Ma davanti al terribile pericolo rappresentato per la sicurezza dello Stato russo dalla presenza a Sochi delle Pussy Riot, i servizi di sicurezza del Fsb (degni eredi del Kgb) sono entrati in azione, senza nemmeno la scusa utilizzata contro Luxuria, l’attuazione della legge antigay, comunque aberrante ma comunque legge.
Putin è sempre Putin e lo è sempre per tutti i cittadini russi, gay o non gay; le parole dell’ex premier Letta all’inaugurazione dei Giochi (“dopo questa cerimonia Mosca cambierà sui diritti”) si sono già rivelate una pia illusione.
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